DAD è una di quelle sigle che in quest’ultimo anno è entrata prepotentemente nel nostro dizionario tant’è che non serve neppure ricordarne il significato, ma fra cinque o dieci anni rileggendo queste righe ci ricorderemo che voleva dire didattica a distanza? Vorrei sperare che ce ne siamo dimenticati perché il desiderio è quello di uscire (e dimenticare) rapidamente questa pandemia, ma nello stesso tempo desidererei che continuasse e venisse migliorata questa esperienza formativa.

Quello che non funziona oggi nella DAD è il voler utilizzare la stessa modalità e gli stessi strumenti delle lezioni frontali fatte in aula. L’ostacolo maggiore è la nostra mentalità troppo legata alla consuetudine, all’ “abbiamo sempre fatto così”, alla grande resistenza al cambiamento che insita in noi.

Mi occupo di tecnologie innovative da quasi trent’anni e nonostante alcune di queste esistano da parecchi anni e siano d’uso quotidiano, trovano una forte resistenza da una parte della popolazione.
Questo ripudio non sempre è legato all’età anagrafica, mentre spesso è correlato ad una mancanza di preparazione e conoscenza.

Ad esempio la posta elettronica, l’email ha 50 anni (si ha proprio mezzo secolo in quanto è stata inventata nel 1971), dovrebbe pertanto aver avuto tutto il tempo necessario per diventare un mezzo consolidato ed aver sostituito altri mezzi di comunicazione meno efficaci, ma sappiamo bene che non è così. Quante persone usano in modo errato la posta elettronica ad esempio stampando tutti i messaggi ricevuti? Quante persone non hanno neppure un indirizzo email?

Quando ero molto giovane scrivevo delle lettere ad amici e parenti: dopo aver scritto una lettera, dovevo trovare una busta, appiccicarci un francobollo, recarmi ad imbucarla e quindi attendere che il destinatario la leggesse e che a sua volta compisse le stesse operazioni per inviarmi una risposta. Passava una settimana o anche più.

Ora con l’email posso scrivere e ricevere una risposta nel giro di pochi minuti ovunque mi trovi.

Quale è la migliore? Sembrerà insolita o bizzarra questa mia risposta, ma non è possibile confrontare la posta tradizionale con l’email, perchè sono differenti e molto dipende da come, quanto e perchè si usa l’uno o l’altro mezzo di comunicazione.

Se chiedessi a bruciapelo se costa di meno inviare una email o una lettera tradizionale, molti risponderebbero indicando l’email come gratuita. Ma a pensarci bene non è proprio così. Per spedire una lettera devo mettere in conto il costo della carta, della busta, dell’inchiostro, del francobollo e del tempo/risorse necessarie per andare ad imbucare ed il tempo affinché il destinatario riceva quanto ho scritto. Per spedire una email dovrei mettere in conto il costo del dispositivo (SmartPhone o PC), dell’energia elettrica e dell’abbonamento internet. Se, per assurdo, dovessi spedire un’unico messaggio è centinaia di volte più conveniente la posta tradizionale. Anche il fattore tempo (ovvero quanto ci impiega il messaggio ad arrivare) non è un metodo di confronto perchè nonostante l’email arrivi un secondo dopo che l’ho inviata, se il destinatario accede al proprio account dopo mesi, la velocità di invio non serve a nulla.

Smart Working, che tradotto vorrebbe dire lavorare in maniera intelligente, è un altro termine molto usato in questi ultimi mesi per indicare sia il telelavoro (lavorare da casa con gli stessi orari e modalità dell’ufficio) che il lavoro agile (lavorare negli orari preferiti in autonomia e per obiettivi).

Molti dirigenti aziendali pensano alla propria azienda come ad una catena di montaggio e pertanto credono che il TeleLavoro sia il sinonimo o la traduzione di Smart Working e applicano le stesse regole del lavoro aziendale con l’obbligo di presenza, la timbratura del cartellino (elettronico certo…) ed una valutazione e/o compenso in termini di ore lavorate.

Siamo enormemente distanti dal vero Smart Working che prevedrebbe che sia il lavoratore a scegliere l’orario di lavoro e che dovrebbe anche venir retribuito non più in termini di ore lavorate ma per obiettivi raggiunti.

Quando si acquista un’automobile, un computer, un elettrodomestico non ci importa quante ore ci sono volute per produrlo, mentre valutiamo per bene tutte le caratteristiche tecniche ed estetiche del prodotto finito.

Lo stesso si dovrebbe fare per le prestazioni lavorative: retribuire non le ore impiegate ma la qualità produttiva ottenuta.

Prendiamo due persone: una impiega la metà del tempo dell’altra per ottenere lo stesso identico risultato.
Se li retribuiamo considerando solo il tempo impiegato, chi ha impiegato più tempo riceverebbe il doppio dell’altra persona. Ti sembra corretto? No, non lo è ma in molte aziende questo è quello che succede.

Se li retribuiamo considerando i risultati, entrambi prenderebbero la stessa cifra, ma chi è riuscito a fare lo stesso lavoro in metà tempo, l’altra metà del tempo può impiegarla per fare qualcos’altro e ricevere un ulteriore compenso o decidere di usare quel tempo per se stesso.

Questo sarebbe il vero Smart Working: ricevere un obiettivo ed un tempo limite per farlo (che sia ragionevole) e quindi lasciare libertà al lavoratore di organizzare il suo tempo a seconda delle proprie capacità, senza timbrare il cartellino.

Il ragionamento fatto fino ad ora vale solo per quelle tipologie di lavoro che consentono una organizzazione oraria libera, un autista di autobus che deve rispettare tracciato e orari di fermata o un cuoco in un ristorante non possono usufruire di questa opportunità, ma in molti altri casi questo sarebbe possibile o parzialmente possibile se solo si riuscisse a cambiare mentalità e passare dalla visione “catena di montaggio” al lavoro per obiettivi.

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