A marzo sono trascorsi due anni di telelavoro chiamato comunemente ed erroneamente smartworking: la differenza non è tanto la lingua usata, ma il modo stesso di lavorare.

Telelavoro indica la possibilità di lavorare da casa o da un luogo scelto dal lavoratore, ma effettuando lo stesso orario che faceva quando si recava in ufficio; losmartworking (lavoro agile in italiano) non ha questa imposizione di orario e lascia al lavoratore l’onere di organizzarsi quando meglio crede e all’azienda l’onere di imporre degli obbiettivi quantificabili e verificabili.

Negli ultimi due anni la mentalità aziendale delle diverse imprese in Italia si è evoluta ed il telelavoro è stato equiparato al lavoro in ufficio e negli ultimi mesi si intravvedono le prime aperture sul vero smartworking per alcune mansioni lavorative.

Il passaggio dal telelavoro allo smartworking non è di facile attuazione in quanto stravolge il concetto di retribuzione oraria che è il punto fisso di tanti contratti collettivi nazionali di lavoro. Occorre sostituire la retribuzione oraria con il valore equivalente della prestazione e pagare i risultati, gli obiettivi ottenuti e non le ore spese per ottenere quei risultati.

Quando acquistiamo un prodotto artistico (un quadro, una scultura, etc.) non paghiamo le ore impiegate nella realizzazione, ma l’opera stessa, il risultato complessivo ottenuto.

Applicare questo concetto al lavoro dipendente è la prossima sfida che ci attende.

Una rivoluzione temuta dai fannulloni e dagli incompetenti in quanto verrebbero (finalmente) pagati meno rispetto alle persone competenti e/o a chi si impegna per portare a termine con la maggiore qualità e nel minor tempo possibile le proprie mansioni ed attività.

Tre lavoratori, A, B e C devono produrre un qualcosa.

A ogni giorno produce una quantità pari ad 8, B arriva a 5 e C riesce ad arrivare a 2. La qualità finale è la stessa per tutti e tre i lavoratori.

Il loro contratto di lavoro prevede una paga oraria e tutti e tre percepiscono la stessa retribuzione nonostante A produca più di B e C messi assieme.

Se l’azienda pagasse i risultati ottenuti, A avrebbe un riconoscimento per il suo lavoro che risulta superiore alla media, al lavoratore B probabilmente non cambierebbe nulla in termini retributivi in quanto è nella media, mentre il lavoratore C sarebbe penalizzato.

Se il lavoratore C è un fannullone, probabilmente aumenterebbe i ritmi di lavoro e riceverebbe la stessa retribuzione di B. Qualora C fosse un incompetente probabilmente non supererebbe la quantità 2 ma in questo caso l’azienda non ci rimetterebbe in quanto retribuirebbe solo i risultati ottenuti e non il tempo perso.

Arriveremo a questa metodologia di lavoro? In un prossimo futuro credo di sì, in quanto per sopperire alla mancanza di controllo del dipedente in telelavoro le aziende saranno costrette a passare dalla retribuzione oraria a quella qualitativa.

Ma ritorniamo ai due anni di telelavoro: confrontandomi con colleghi e amici sono emerse diverse visioni a seconda della situazione del nucleo famigliare e dell’organizzazione degli spazi in casa.

Un vantaggio comune è il tempo guadagnato per fare il tragitto casa-lavoro e lavoro-casa. I colleghi più distanti dalla sede di lavoro (qualche collega impiegava 2-2,5ore al giorno tra andata e ritorno) sono quelli che ne hanno tratto un beneficio maggiore.

Lo svantaggio segnalato da molti è la mancanza di convivialità, dei contatti personali, dello stare insieme a bersi un caffè o durante la pausa pranzo, la mancanza di quel dialogo extra-lavorativo che permetteva la conoscenza tra i colleghi.

Un altro svantaggio sentito dalla metà dei lavoratori è quello che si tende a lavorare più dell’orario previsto: con la “scusa” del tanto sono già a casa in molte occasioni si anticipa o si prosegue l’attività sforando il normale orario previsto.

A questo si contrappone il vantaggio che il telelavoro ha consentito di prolungare la permanenza nel luogo di vacanza: i lavoratori con figli (ma non solo) hanno optato per fare un periodo di ferie seguito da un periodo di telelavoro dal luogo delle vacanze.

Chi ha organizzato uno spazio dedicato esclusivamente al lavoro o comunque isolato dalle interferenze famigliari, ha trovato vantaggioso anche in termini di produttività e concentrazione lavorare da casa rispetto all’ufficio. Chi invece ha figli piccoli o adolescenti e usa spazi comuni per la postazione di lavoro ha maggiormente sentito la mancanza dell’ufficio come spazio fisico dedicato all’attività lavorativa e non vede l’ora di ritornare in ufficio.

Proprio quest’ultimo aspetto è quello determinante sul ritornare in ufficio: maggiori sono i problemi di “convivenza” in casa e maggiore è il desiderio di ritornare in ufficio anche da parte di chi è fisicamente lontano dalla sede lavorativa. Chi invece si è organizzato “costruendo” uno spazio esclusivamente dedicato al lavoro è meno propenso a tornare in ufficio anche se abita a cinque minuti di distanza.

Nel mio caso in questi due anni ho alternato il telelavoro con trasferte ed attività presso clienti in diverse zone italiane anche nei periodi di lockdown totale e/o zona rossa con tutte le “scomodità” del caso quali ad esempio cenare nella stanza dell’hotel in quanto non erano aperti i ristoranti.

Questa particolare situazione mi ha fatto incontrare di persona con colleghi della sede di Molfetta, di Milano e di Roma mentre paradossalmente è da due anni che non vedo di persona i colleghi della mia sede di Trento e nel frattempo alcuni sono diventati ex colleghi ed altri sono arrivati come neoassunti.

Fin dal marzo del 2020 mi sono organizzato per avere un postazione fissa dedicata alle sole attività lavorative e man mano che passavano le settimane ho migliorato l’ergonomia e l’usufruibilità tant’è che ora è diventata migliore rispetto al posto di lavoro dell’ufficio pertanto anche terminata la fase pandemica credo continuerò ad alternare trasferte e telelavoro e solo pochi giorni al mese andrò in ufficio, magari in occasione dei compleanni e/o dei festeggiamenti…

La mia postazione di telelavoro

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